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Toni Zuccheri

Fuoco per Vetro e Bronzo

Architetto per formazione, designer per professione, un genio per i collezionisti, lui amava definirsi un artigiano.
Pierantonio “Toni” Zuccheri (Venezia 1937 – San Vito al Tagliamento 2008) scelse il vetro come mezzo espressivo, affermandosi a livello mondiale come uno dei maestri del ‘900. Seppe plasmare la materia fatta di silicio, acqua e fuoco, ottenendo forme fantastiche di fauna e fl ora, attraverso la padronanza del disegno, la grande conoscenza della complessità compositiva, capace di superare il limite apparentemente imposto dalla materia. Pittore e scultore del vetro, seppe fondere la tradizione dei grandi maestri vetrai esecutori di Murano con la sua geniale capacità di inventare tecniche e colori nuovi, includendo nelle opere metalli, come bronzo e ottone, fi li di rame, polvere d’oro, murrine e perline, ma anche materiali poveri come sassi raccolti lungo il greto del Natisone, piume cadute dal cielo, fogli di carta, pannocchie e legni raccolti nelle passeggiate nei boschi.
Il suo bestiario è composto da upupe, anatre, tacchini, passerotti e tanti altri pennuti frutto della sua fantasia. Per dare vita alle creature le esponeva agli elementi naturali: la luce del sole e della luna, la pioggia e il vento. Un rito iniziatico per renderle vive.
Dopo la laurea nei primi anni ’60 del inizia a 25 anni a collaborare con Venini, storica industria veneziana di Murano. Da subito si rivela un innovatore e un ricercatore sempre rispettoso delle tecniche artigianali, da realizzare grazie anche alla competenza dei maestri vetrai esecutori. Fu artefi ce di una svolta verso l’informalità in un ambiente ancora molto improntato al rigore. Negli anni ‘70 inizia a collaborare con altre vetrerie, VeArt, Barovier & Toso continuando la sua ricerca e sperimentazione nella creazione di fi gure del mondo animale. Di questo periodo la realizzazione di oggetti di grandi dimensioni, vasi giganti, definiti titani. C’è un uso del colore coraggioso, un’esuberanza e un’energia nella produzione di questi anni che rispecchia il contesto sociale, culturale e economico di tutto il Paese in forte crescita.
Negli anni ‘80 una svolta, abbandona Venezia e si rifugia nella grande casa padronale a San Vito al Tagliamento dove inizia un nuovo processo creativo improntato alla libertà espressiva e di ricerca. Questo periodo è contraddistinto da opere non più solo realizzate con il vetro, ma con assemblaggi di materiali e metalli diversi.
A partire dagli anni ‘90 riprende la collaborazione con la Venini e si specializza nella realizzazione di animali in vetro e fusioni di bronzo, creando pezzi unici di rara qualità e bellezza.
Negli anni a seguire continua a creare, ricercare e produrre opere nelle quali il vetro non ha più bisogno di sembrare vetro, semmai una lente di ingrandimento delle materie che lo compongono, compendio di energie e fascino in grado di suscitare, in chi le guarda, stupore. Opere uniche, magicamente create da un genio schivo, sempre in eterna ricerca di un’altra possibile perfezione compositiva.

Attiliana Argentieri

L’arte Tessile

La sperimentazione pura, svincolata dalle leggi del mercato, unita a una creatività libera da legacci di forme e materiali, hanno fatto di Attiliana Argentieri Zanetti un’artista innovativa nelle tecniche dell’arte tessile.
Dà vita ad arazzi polimaterici tessuti su antichi telai a liccio, a sculture tessili tubolari, utilizzando fi lati diversi, che variano dalle fi bre vegetali ai fi lati industriali e sintetici; e ancora impiegando tessuti, pizzi meccanici, macramè, crochet e tricot per composizioni tridimensionali. Crea trame e orditi dai colori di scuola veneziana sui quali si inseriscono materiali a volte impropri, come legni, carta, conchiglie o piume, l’originalità di composizioni espressa nel modulo tessile della Tapisserie d’Angers. Queste sono solo alcune tappe della sua vasta e varia ultra cinquantennale attività creativa, espositiva e di docenza, improntate alla gioia di fare e comunicare. In continuo equilibrio fra sperimentazione e tradizione, l’artista ha svolto approfonditi studi sull’arte del tessuto friulano, che l’hanno portata alla riscoperta e a una nuova interpretazione della tradizione Settecentesca del patrimonio tessile locale. Pittrice e scultrice nel settore della fi ber art ha creato opere con fi li di cotone, canapa, lana, seta ma anche cannule di plastica, in un equilibrato lavoro di forme e materiali, che assai spesso hanno saputo dialogare con contesti artistici, in uno scambio fra presente e passato.
Nata a Viareggio nel 1931, consegue il diploma in “Arte tessile” all’Istituto Statale d’Arte di Venezia, diretto dalla designer svedese Anna Akerdhal. Sono anni di grande fermento e innovazione nel settore, Attiliana Argentieri è tra le prime espositrici di Ca’ Pesaro, partecipa alle mostre della Fondazione Bevilacqua la Masa. Dal 1956 al 1970 espone in 4 edizioni della Biennale di Venezia e frequenta il Centre International d’Étude des Textiles Anciens di Lione. Anni molto signifi cativi tanto nella sua carriera espositiva e di ricerca, quanto sul piano dell’attività didattica. Stabilitasi a Udine nei primi anni ’70 ha vissuto un sodalizio di vita e arte con il marito coreografo Gianfranco Zanetti. Ha diretto per un decennio la cattedra di progettazione tessile all’Istituto statale d’Arte, studiato i “manoscritti dei tessitori friulani”, curato importanti rassegne sulla manifattura settecentesca di Jacopo Linussio, pubblicando il primo Dizionario Tecnico della Tessitura in Italia. Di indole generosa e attenta alle nuove generazioni ha sostenuto per anni l’attività degli allievi dell’École des Beaux Arts di Basilea. Ha collaborato come docente e esperta alle attività del Centro Regionale Friulano di Catalogazione e Restauro di Villa Manin.
Le sue installazioni, sintesi espressive di sapere artigianale e continuo aggiornamento sui materiali multimaterici, sono esposte dagli anni ‘90 in importanti esposizioni. Sue opere sono state protagoniste di mostre a Palazzo Mocenigo, al Museo Nazionale di Lucca, alla Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Viareggio, alla XXI Triennale di Milano nella mostra dedicata al design internazionale al femminile, e in molti altri contesti di prestigio. Nella sua attività l’artista ha saputo trasformare il mestiere antico della tessitura in un’arte sorprendente e innovativa, contribuendo a fare dell’arazzo un’espressione artistica contemporanea.

Gustavo Zanin

Lectio Magistralis - Mitologia Fantasia e Storia della Musica

La voce di Dio, mistica e potente, si diffonde nelle cattedrali del mondo, prodotta dagli organi costruiti a Codroipo (Ud) nella ditta di Gustavo Zanin, fi glio d’arte, erede di una tradizione lunga sette generazioni di costruttori e restauratori organari.
Nato a Codroipo nel 1930, dopo gli studi a Udine, a soli 25 anni, prende in mano le redini dell’azienda e per 40 anni è l’artigiano-artista che dà e ridà voce a strumenti di impareggiabile pienezza sonora e bellezza decorativa. In lui c’è passione e impegno per infondere voce divina alla materia, per raggiungere una perfezione negata all’uomo.
Durante tutta la sua attività non ha mai perso di vista il valore della tradizione che ha saputo rinnovare con genialità e intelligenza, ideando ardite soluzioni tecniche e architettoniche, con progetti anche in campo elettronico. Il suo nome e le sue creature destano ammirazione e apprezzamento nel mondo musicale nazionale e internazionale.
Gli strumenti che escono dalla sua azienda sono tutti costruiti a mano, in legno di bosso e ebano, con canne di stagno, leghe e fusioni di metalli. Anche i chiodi vengono fatti in azienda e ogni numerazione inizia con una croce “per la gloria di Dio”.
Il progenitore degli attuali organi fu creato da Ctesibio di Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C.. La pressione veniva prodotta con l’aiuto dell’acqua, successivamente venne applicato un mantice e vi fu la trasformazione da idraulico a pneumatico.
Descrive lo strumento, cantore sin dal XII secolo della religione cristiana, come un corpo umano: i due mantici, azionati a mano o meccanicamente, sono i polmoni, le tastiere le dita, le canne la bocca dalla quale esce il canto.
Appassionato di storia e grande narratore, capace di mescolare abilmente scienza e fantasia, letteratura e mitologia, Gustavo Zanin affascina con il suo eloquio dotto e ironico che ha come protagonista assoluto lo strumento, composto da un insieme di fl auti e di tubi, chiamati auli, nei quali passa l’aria che, sottoposta a compressione, emette dei suoni. Dalla lunghezza dell’aulo dipende la frequenza, mentre dal diametro dei tubi il timbro. Vi sono dunque i fl auti chiari e scuri, dai suoni tenui e fl ebili o bassi e potenti. Le canne piccole producono frequenze acute, quelle grandi ne emettono di gravi. Vibrazioni che riverberano nell’animo dei fedeli in un passaggio mistico e assoluto dal contingente al trascendente.
Per questo la chiesa scelse l’organo come strumento prediletto: per la sua possibilità di continuità e fi ssità di note e accordi, atti a rievocare atmosfere mistiche e sovrannaturali, facilitando la capacità di concentrazione dei fedeli. Sposato con Marinella Sonego, Gustavo Zanin, Maestro Artigiano e grand’Uffi ciale della Repubblica, ha tre fi gli, Giovanni, Anna e Francesco. A quest’ultimo ha passato il testimone nella conduzione della ditta organaria, ma non trascorre giorno che non si rechi in azienda.
Strumenti della ditta Zanin sono presenti in cattedrali italiane, ma anche quelle europee e nel mondo. Grazie ai suoi restauri hanno ritrovato voce gli organi antichi di Spilimbergo, Valvasone e Strasburgo.
A chi gli chiede se si considera un artigiano o un artista risponde: “L’arte è la qualità e la bellezza dell’opera che perdurano nella storia”.

Serse

Disegno Sublime

La natura e l’indagine del sublime nel paesaggio, analizzati attraverso la tecnica del disegno a matita su carta, sono la sintesi della complessità artistica di Serse, al secolo Fabrizio Roma, nato a San Polo del Piave (Tv) nel 1952, residente a Trieste dove anche lavora. Autodidatta con una formazione scientifica, inizia a dipingere negli anni’70, aderendo al neoespressionismo e alla transavanguardia. Movimenti nei quali non si trova a suo agio, provando un senso di spaesamento verso le liturgie della pittura. Prende così coscienza della necessità di ricercare nelle categorie del silenzio e dell’ordine lo statuto del suo lavoro, per potenziare l’essenzialità del linguaggio e degli strumenti espressivi e il loro legame con il pensiero.

Per questo sceglie la grafite, composta come il diamante da atomi di carbonio dalle proprietà allotropiche, una sorta di alfa e omega. La grafite morbida, scura e opaca, il diamante duro, cristallino e lucente. Nella scala cromatica rappresentano luce e ombra; metafore del suo procedere artistico, adatto a rappresentare e tradurre la sua visione del mondo.

Un universo fra luce e tenebra, in una percezione del paesaggio squisitamente romantica, esplicitata anche nell’azione tautologica del gesto ripetuto, per dare vita a opere che sono riflessioni sul concetto del sublime e del ciclopico, fuori dal tempo, come le idee.

Il primo ciclo “Aria di Parigi”- citazione duchampiana - sono grandi vedute di radure viste a volo d’uccello. Poi indaga il senso di vertigine dell’uomo di fronte alla vastità del creato. Il suo universo rappresenta gli elementi naturali: riflessi nell’acqua (A fior d’acqua), nuvole (Gas), montagne (Notti bianche), mari (Ai Sali d’argento) e radure (Paesaggio adottivo). Nella maestosità della natura riconosce l’immensità interiore dell’animo umano, cara alla poetica romantica. Dagli inizi degli anni ’90 molte sono le mostre personali e collettive, in Italia e all’estero. Ricordiamo qui le più recenti e significative: Musée d’Art Moderne et Contemporain de Saint-Étienne Métropole; Galleria Continua a Beijing in Cina, Galleria Continua a San Gimignano. La Città di Trieste gli ha dedicato una personale nell’ex Pescheria- Salone degli Incanti.

Le sue opere, eccezionali per il grande formato, sono inizialmente una tramatura di segni tracciati con la consapevolezza dell’operare classico, centrato sulla costruzione di grigi leggeri che crescendo di intensità, si infittiscono fino ai neri profondi. Una tessitura di segni offuscata dalla fase di sfumatura per dissolvere la percezione dei particolari.

La gomma infine ha il compito di ricostruire l’immagine, far riemergere il bianco della carta. Si avverte la magia del recupero delle finezze di luci e ombre in infinite gradazioni. Serse, figlio del Rinascimento, ha una visione dell’opera come la “finestra” aperta sul mondo, poi opacizzata dal tempo. Prende atto della rivoluzione iconoclastica della finestra di vetri neri di Duchamp “Fresh Widow”, 1920 e della chiusura definitiva del sipario visivo di Malevi in “Quadrato nero”. Presa coscienza di questi avvenimenti e constatata la presa diretta del soggetto naturalistico attraverso un “occhio altro”, fuori da sé, cerca la realtà dell’attimo, anche utilizzando appunti colti con la fotografia. L’opera esiste già e dimora nella mente dell’artista. Il fotografo trova mentre l’artista cerca.

Giorgio Celiberti

Arte, Amore, Scienza

Pittore, scultore, designer, Giorgio Celiberti vive un’avventura esistenziale e artistica con curiosità, energia, passione e umiltà. Nato a Udine nel 1929, ha iniziato la carriera alla fine degli anni quaranta, imponendosi come uno degli artisti più interessanti nel panorama italiano e internazionale. Alla domanda del regista e fotografo Luigi Vitale: “Che cosa è l’arte”, risponde con pensosa, timida incertezza: “L’arte è come l’amore, imprevedibile, sorprendente, ingovernabile. Non si sa mai quando l’ispirazione si manifesta”. Si definisce “Un operaio dell’arte”, in costante ricerca di risposte alle grandi domande sul senso e valore della vita e dell’arte, quesiti sui quali i grandi di ogni tempo si sono interrogati. Lavora ogni giorno, legge, sperimenta, si confronta con le opere dei maestri del passato, misurandosi con nuovi linguaggi. Rifugge l’astrazione, le definizioni assertive e la freddezza dei concetti; lascia che siano le opere a parlare. Affida al suo gesto potente, capace di aggredire e domare la materia, la sua risposta. Nel suo studio alle porte di Udine, vasta struttura inondata di luce, contenitore essenziale di arte, riceve amici e collezionisti, immerso e circondato da opere che narrano il percorso creativo degli ultimi 20 anni, in uno scenario di ordinata casualità. Occupano lo spazio grandi quadri astratti, a soggetto archeologico e mitologico, affreschi dalle parole abrase, graffiti, collages, sculture in bronzo, ceramiche e terracotte, grandi polittici in bianco e nero, cicli dedicati alle farfalle e ai cuori, ma anche gioielli e opere di design; e l’elenco potrebbe continuare. Dopo la metà degli anni ’60 un evento segna in modo profondo e indelebile l’uomo e l’artista: la visita al campo di concentramento di Terezìn. Come reazione al dolore nasce il grido contro la barbarie testimoniata dal ciclo “Stele”, lastre verticali con rilievi e iscrizioni. Ha invece radici nell’adolescenza il ciclo “Finestre”, espressione di libertà di Celiberti bambino, quando la madre gli regalò una stanza dove disegnare, dipingere e anche incidere nicchie nelle pareti, in cui stratificare materia e colori. Dallo studio, protetto dall’esterno da un giardino-serra, Celiberti viaggia mentalmente ogni giorno verso Parigi, New York, Roma e il Giappone, luoghi dove ha vissuto e operato.

La sua avventura nell’arte inizia nel 1948, studiando a Venezia con Emilio Vedova e partecipando nello stesso anno alla Biennale. Negli anni successivi risiede e lavora a Parigi, Bruxelles e Londra, viaggia e espone a New York, Messico, Cuba e Venezuela.

Poi gli anni romani: “Lavoravo in uno studio grande come una cattedrale - ricorda Celiberti - che lasciai a Guttuso quando abbandonai la capitale, dopo la morte di mio zio, il pittore Modotto”.
Lungo e prestigioso il carnet delle esposizioni fra collettive, personali e monografiche. Ricordiamo i premi e la presenza a cinque Quadriennali di Roma. Negli ultimi anni ha esposto a Palazzo dei Diamanti a Ferrara, al Grand Palais a Parigi, ai Musei di Villa Breda a Padova e Ebraico a Venezia, alla Biennale Magazzino 26 a Trieste, a Villa Manin di Passariano (Ud) e ai Musei nazionali di Ravenna e di Cassino. Giorgio Celiberti: un maestro con l’entusiasmo da adolescente, in continua ricerca.

Testi di Margherita Reguitti

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